La sfilata Cosmogonie di Gucci, andata in scena a Castel del Monte, in Puglia, ha riportato l’attenzione sul rapporto fra i monumenti italiani e i brand di moda. Questi ultimi, con la ripresa degli show dal vivo post lockdown, confermano la volontà di utilizzare e legarsi ai luoghi dell’arte e il loro impegno nella tutela e nel recupero dell’architettura. Gucci non è il primo marchio ad aver dimostrato questo interesse. E se la Puglia con Lecce era già stata la location di Dior per la collezione Cruise 2021, la moda in generale ha investito in modo strutturato nei monumenti italiani, trovando terreno fertile per supportare un settore suggestivo, ma spesso a corto di fondi.

Gucci Cosmogonie

La sfilata di Gucci Cosmogonie, a Castel del Monte

 Daniele Venturelli/Getty Images

Da dove nasce questa spinta

In questo senso sicuramente l’Art Bonus introdotto da Dario Franceschini nel 2014 ha dato una forte spinta al processo. Entrando nel dettaglio, il donatore ha di fatto il ruolo del mecenate e in quanto, tale beneficia, grazie al credito d’imposta, di un regime fiscale pari al 65%. Nel caso in cui si tratti invece di una sponsorizzazione culturale in cui il beneficiario è tenuto a favorire il nome del brand, la situazione cambia e il tutto viene equiparato alla deducibilità degli investimenti pubblicitari.

Gli esempi di mecenati o sponsor sono molteplici e con accordi molto diversi fra loro. Lo scorso anno è terminato il restauro del Colosseo sponsorizzato da Tod’s. In cambio dei 25 milioni stanziati, il brand toscano, fra le altre cose, ha ottenuto il diritto esclusivo di sfruttamento dell’immagine del monumento per 15 anni e la possibilità di inserire il proprio marchio sui biglietti e sulla recinzione oltre ovviamente a poter comunicare il suo contributo. Sempre a Roma, Bvlgari ha permesso la riqualificazione della scalinata di Trinità dei Monti con un investimento di 1,5 milioni di euro come dono alla città, musa ispiratrice del lavoro del brand da sempre. Fendi ha finanziato come mecenate invece le opere di restauro di Fontana di Trevi con circa 2 milioni di euro e successivamente ha poi sfilato proprio nella fontana. A Milano il restauro della Galleria Vittorio Emanuele sostenuto da Prada e Versace, e poi Gucci a BoboliRenzo Rosso A Venezia per il ponte di RialtoCucinelli con il restauro della Torre di Norcia e tanti altri.

La sfilata per il 90esimo anniversario di Fendi con la fontana di Trevi a fare da sfondo

La sfilata per il 90esimo anniversario di Fendi, con la fontana di Trevi a fare da sfondo

 Vittorio Zunino Celotto/Getty Images

Ma qual è il limite nell’utilizzo di un bene che appartiene alla collettività e della sua immagine?

Gucci è stato protagonista in questo senso, con il rifiuto eccellente da parte di Atene all’utilizzo del Partenone come set nel 2017. L’opinione pubblica si è spaccata. Da un lato i critici fra cui Tommaso Montanari, lo storico dell’arte, hanno applaudito il diniego greco considerando l’operazione di fatto una mercificazione di un bene pubblico che dovrebbe essere al di sopra delle dinamiche del mercato, negando di fatto qualsiasi possibile dialogo fra moda e arte antica che sia il Partenone o i Musei Capitolini. Dall’altro invece il ministro Franceschini ha ribadito quanto questo tipo di investimenti sia cruciale in un paese come Italia, definendo la moda come parte dell’arte italiana contemporanea.

Cosa succede all’estero

Quest’anno Louis Vuitton ha sfilato al Museo d’Orsay di Parigi, mentre nel 2018 Chanel ha scelto come location l’area egizia del Metropolitan a New York in cui è presente il tempio di Dendur. Allo stesso tempo le mostre legate ai brand di moda sono molto richieste all’interno dei circuiti museali, anche se spesso sponsorizzate e curate dagli stessi brand: storica quella di Alexander McQueen al Metropolitan nel 2011.

La sfilata di Chanel al Met New York.

La sfilata di Chanel al Met, New York.

 ANGELA WEISS/Getty Images

Moda e arte, rapporti possibili

Non si vuole affrontare l’annosa questione se la moda sia arte o meno, su cui nemmeno gli stessi designer hanno un parere concorde – e chissà poi con l’avvento degli NFT quanto questo dibattito possa diventare noioso e sterile. Ancor prima di parlare di mercificazione, però, sarebbe interessante capire cosa con l’arte può dialogare e rapportarsi. Il discorso sembra critico se si pensa al confronto fra una collezione singola, addirittura una Cruise, che certo non fa del rapporto con l’eterno il suo punto di forza, e un monumento.

Il discorso diventa un po’ diverso se ci si concentra magari sulla filosofia che un brand porta avanti per anni che di fatto orienta il gusto di una parte di mondo anche nelle altre discipline. E a proposito di altre discipline, c’è qualche limite nel modo in cui ad esempio cinema e musica si possono rapportare all’antichità? Qui la risposta sembra più facile, a prima vista. Ma la domanda non è banale, anzi molto specifica perché come la moda, anche il cinema e la musica vogliono raccontare le loro storiema farlo al massimo numero di persone possibili, cioè vendere, e per riuscirci hanno bisogno di spazio e di storia. A poche settimane dall’uscita dell’ultima serie della Lucas Film su Obi-Wan Kenobi, possiamo ricordare naturalmente le riprese di Star Wars all’interno della Reggia di Caserta, ma la lista sarebbe lunga, così come quella dei tanti concerti all’interno dei siti archeologici.

Il punto della Grecia è rispettabile, per quanto nel 1951 il Partenone fece da sfondo alla collezione di Dior; come è comprensibile allo stesso tempo l’approccio italiano legato al mecenatismo, ancora ben lontano dalla modalità americana, dove la sponsorizzazione privata è massiva e ha un’ingerenza maggiore. Non aiuta l’immaginario che l’uomo contemporaneo ha in mente, in particolare dell’arte antica greca e romana e del passato in generale, spesso appiattito. Ne sono un esempio proprio le immagini di Dior con il Partenone sullo sfondo. Anche qui ad un primo sguardo disattento le foto un po’ sbiadite e i vestiti legati a un certo tipo di eleganze del passato potrebbero sembrare perfettamente amalgamati con il contesto, ma in realtà il cortocircuito è totale.

La percezione dell’arte

E se da un lato Prada con la sua mostra “Serial Classic” in Fondazione ha provato a riequilibrare il rapporto fra copia e originale nell’arte classica conferendo anche alla copia una sua dignità, forse non siamo ancora arrivati a comprendere ed accettare un passato in cui persino le statue erano dipinte con colori sgargianti, molto più vicine al nostro kitsch contemporaneo e alla campagna di Gucci di cui abbiamo parlato, che al concetto di classico eterno. Sia il Partenone che il Colosseo, per prendere due esempi già citati, facevano forte uso del colore e negli anni non sono rimasti poi così immutabili: il primo è stato sia chiesa che moschea, mentre il secondo un lanificio, un deposito di letame, una chiesa e una cava i cui marmi sono stati poi utilizzati per dar vita a San Pietro e Palazzo Barberini.

Allora forse il passato non era poi così freddo e immutabile, ma molto più mischiato e sporco, e un dialogo fra contemporaneo e antico è possibile e necessario per comprendere a fondo che poi non siamo così distanti da chi ci ha preceduto.

E come ci ricorda l’artista Maurizio Nannucci “All art has been contemporary”.